domenica 24 agosto 2014

Sequel.

Ti racconterò di quell’estate in cui ti sei affacciato, ci hai guardato e lentamente hai preso a stare qui su questa terra. Un’esistenza lenta la tua, antica. Esistevi da prima che io nascessi, tra le pieghe dei miei pensieri, raccolto tra i capelli intrecciati della tua bisnonna, tra le mani provate di tua nonna, tra le lacrime di tuo padre e i sorrisi di tuo nonno materno. Esistevi negli occhi di tua nonna paterna, lei ti vedeva già quando anche io non ti sentivo. Vivevi nella sapienza di tuo nonno paterno, che scriveva per te favole per bambini.
Ti racconterò di come io sia riuscita a sedimentare il dolore di un passato difficile nell’attesa di incontrarti, riconciliandomi con una terra che ormai mi appartiene e che era diventata solo teatri di addii in questi ultimi anni.
Era stata un’estate fredda, e pur essendo io un’amante delle temperature basse, in quell’estate sentivo il bisogno di riscaldare il mio fisico, che durante tutto l’anno trascorso aveva dato segnali di impazienza, di incoerenza. Si era acceso e poi spento molte volte in quegli anni, si era preparato alla vita e poi alla morte, continuando a produrre ormoni e poi segnali incostanti di inquietudine.
Mi sentivo inquieta, è vero. Avevo appena compiuto quarant’anni. Consideravo da sempre quell’età una méta da raggiungere per guardare indietro ciò che si era costruito fino a quel momento. Io mi guardavo indietro e consideravo di non aver costruito poi granchè. Non c’era nulla, a mio avviso, che valesse quanto la tua esistenza su questa terra. Ti chiamavo a gran voce, ogni sera, guardandoti con il naso all’insù. Ti chiamavo e ti imploravo come non amavo fare. Ti avevo implorato di raggiungerci, raccontandoti sottovoce quanto bella era la vita da queste parti. Guardavo preoccupata l’accenno di piccole pieghe agli angoli dei miei occhi, non accettavo la nascita di un primo capello bianco ordinando in maniera repentina la sua immediata estirpazione alla mia parrucchiera. Cercavo calore, ma soprattutto che il mio corpo si calmasse. Cercavo di fare il possibile per rimanere in silenzio, serena, in ascolto. Imparavo, ogni giorno imparavo una cosa diversa, ringraziando chi mi era intorno e chi mi amava senza condizioni e senza giudizio. Non ero più arrabbiata con nessuno, lo ero stata a lungo, ma non volevo più nemmeno questo. Non volevo provare nulla che ricordasse i miei sbagli, ciò che avevo fatto per lasciare che il mio corpo e il mio cuore soffrissero così tanto nell’attesa di incontrarti.
Sapevo cosa era giusto per me e dicevo in giro che non ti aspettavo più.
Era un’estate fredda, senza futuro. Aspettavo l’inizio dell’autunno senza progetti. Non avevo più armi di riserva. Procedevo a passi lenti, in punta di piedi, più che altro respirando. E proprio respirando riuscii a fare pace con questa terra attaccata al lago, teatro di amore, gioia e poi di tutti i vostri addii. Il lago, mirabile rappresentazione della mia vita, raccolta, finita, delineata fino a quel momento. Una vita programmata, lineare. Un lago che ospitava un emissario da cui usciva la sua acqua. Da quell’emissario eri uscito tu, tante, troppe volte. Te ne eri andato via così, scivolando via da me in silenzio, tranne quell’ultima volta in cui quei dottori dovettero strapparti via dal mio corpo per dividerci.
Odiavo il lago allora.
Cercavo te in ogni riflesso dell’acqua, in ogni granello di sabbia nera, gridando il tuo nome.
Ti racconterò di questa estate fredda in cui ad occhi chiusi riuscii ad accettare il tuo addio e di come imparai a prendere da questa terra l'energia per riscaldare il mio corpo provato. Ti racconterò di come al tramonto, al canto di un mantra, ascoltai nell'aria la storia della tua antica esistenza, di quando finalmente decidesti che quella era l'ora, il momento.
E solo quello era il momento, non un altro. Nonostante tutto.
Una frazione di un milionesimo di secondo appeso a due esistenze in attesa, unite in un canto lento, tra le foglie degli ulivi, tra i fili d'erba e le formiche, quel momento lì.
Solo quel momento lì, prezioso e infinito.
Quello che tu avevi scelto, finalmente.



mercoledì 13 agosto 2014

Manchi

È in questi momenti che mi manchi.
Quando iniziano le vacanze e torniamo in luoghi che viviamo solo una volta all'anno.
Allora respiro i momenti in cui ti aspettavo, avevo la speranza in tasca e il dolore nascosto, il sorriso di chi crede che in fondo un futuro di noi due insieme era possibile. Ritorno in quei luoghi ormai solo teatro delle tue tante dipartite e ogni angolo mi parla di te.
È proprio ora che mi manchi.
Ora.
Ho imparato a vivere senza di te, vedi? Non scrivo nemmeno più come una volta, ti tengo nel mio cuore e mi accontento di vedere da lontano la crescita di bambini che hanno la tua età se tu fossi nato vivo invece che esistere in me e poi morire.
Stamattina papà mi ha chiesto di darti un nome, di darvi dei nomi. Sai che non l'ho mai fatto, voi esistete comunque, io lo so e non ho bisogno di chiamarvi, ma comprendo il bisogno di farlo per definire la vostra, seppur, breve esistenza.
Non piango più.
 Lo sai?
Mi sento solo tanto diversa. Spero che almeno questo mi sia concesso. Mi sento una donna a metà e spero che ammetterlo non vorrà dire essere considerata la poverina senza futuro da criticare perché non va avanti. 
Osservo le donne madri, loro non lo sanno quanto sono belle. Si vedono sformate e stanche, invece sono tutto il mondo racchiuso nell'espressione all'angolo della loro bocca, nelle rughe degli occhi, nello sguardo stanco. Tutto il mondo chiuso lì, dove il cuore batte insieme al proprio figlio, anche se lontano, anche se assente, anche se urlante.
Mi manchi tanto sai? 
Sei in ogni ramo di ulivo di questo campo, nel profumo di rosmarino, tra le fronde danzanti del salice piangente. Sei nella luce della luna che si specchia in questo lago, nelle nuvole che corrono veloci sopra di noi.
Mi manchi, ora che mi fermo e le ore corrono lente.
Mi manchi e la tua assenza non è naturale per me.
Il tempo passa e il tuo vuoto è ancora più grande.
Torna.
Torna, torna a casa.
Posso combattere ancora.